Gli indici, dal DXY al “trade-weighted”, mostrano che il biglietto verde resta nella fascia alta del trend di lungo termine. Per esportatori e investitori l’imperativo è coprire il rischio di cambio
Un nuovo tormentone sta innervosendo gli investitori più propensi alle reazioni emotive, quello della spirale del dollaro USA in caduta, l’ultimo rischio che incombe sulla tenuta dei mercati finanziari. Prima c’è stato quello lunghissimo della recessione in arrivo causata dalla stretta violenta della Fed contro l’inflazione, poi l’allarme rosso sul crollo imminente di Wall Street causato dai dazi esagerati annunciati da Trump, infine la crisi del debito e dei Treasury USA segnalata dai Credit Default Swap. Tutto vaporizzato dalla reazione rialzista dell’azionario e dalla tenuta dell’obbligazionario. E ora arriva il dollaro che precipita e rischia di perdere il suo ruolo di moneta di riserva e di riferimento per gli scambi commerciali e i movimenti di capitale globali. Ci risiamo?
CORREZIONE DOPO LO STRAPPO AL RIALZO SUL TRUMP TRADE
Vediamo. A supporto della tesi catastrofista viene citato il DXY, l’indice che misura il cambio del dollaro rispetto a un paniere di sei principali valute fatto da euro, yen, sterlina, Canada, corona svedese e franco svizzero. La moneta unica europea fa la parte del leone con oltre il 57% dopo aver sostituito le divise di cui ha preso il posto, per cui l’andamento del DXY somiglia molto a quello dell’euro/dollaro, che da inizio anno è salito dalla parità a oltre 1,17. L’indice del dollaro è sceso un po’ di più, perché alcune componenti come lo yen si sono apprezzate partendo da livelli bassissimi. Il risultato è che il DXY ha sofferto il peggior primo semestre da decenni, senza tenere però conto che aveva strappato al rialzo sul “Trump trade” scattato nel finale dello scorso anno…
Il presente articolo è stato redatto da FinanciaLounge.com.