Ecco perché è il momento di puntare anche sui mercati emergenti

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In passato valute e debito degli emergenti sono stati più vulnerabili, ma non sono in vista crisi come negli anni ’90: il trend di crescita ha fatto solo una pausa e resta una certezza

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Da una quarantina d’anni l’inflazione non è più il nemico più temuto dai banchieri centrali. I mercati l’hanno capito e anche strappi un po’ violenti come quelli di aprile-maggio in America vengono digeriti facilmente. Ma questo vale per le economie sviluppate, dall’America all’Eurozona fino al Giappone passando per Cina e Corea, che ormai fanno parte a pieno titolo del club anche se in molti indici sono ancora classificate come emergenti, e molto meno per il resto del mondo. Qui infatti l’inflazione non ha mai smesso di porre seri rischi alla stabilità finanziaria di singoli Paesi o di intere aree, soprattutto in termini di stabilità della valuta locale e flussi di capitale da o verso l’estero. E in tempi di massiccia spesa pubblica, per sanare le ferite inferte dalla pandemia e per far ripartire le economie, è un problema che si fa sentire. La Fed, la Bce, ma anche giapponesi, svizzeri e britannici, possono stampare tutti i dollari, gli euro e gli yen che vogliono, con la certezza che il mercato continuerà ad assorbirli senza fargli perdere valore. E infatti il forex, che per scambi è il più grande mercato del mondo anche se l’unico non regolamentato, da dopo la Grande Crisi Finanziaria è praticamente ingessato, almeno per quanto riguarda le principali monete di riserva.

TASSI PIÙ ALTI MA DEBITO CONTENUTO

Lo stesso non può dirsi per la lira turca, il rublo russo, il peso argentino o messicano, il real brasiliano, il rand sudafricano, per non parlare di Paesi ormai in default cronico come il Venezuela. L’inflazione non impatta allo stesso modo i Paesi sviluppati e gli emergenti. La Fed americana può permettersi di tenere i tassi a 0-0,25% con un’inflazione che viaggia (temporaneamente) al 5%, ma un’inflazione appena più alta al 5,8% impone al vicino Messico tassi di interesse al 4,25%, mentre a prezzi al consumo appena sopra il 6% in Russia e India corrispondono tassi rispettivamente al 4% e al 5,5%. e il Sudafrica deve tenerli al 3,5% nonostante un’inflazione pari a quella americana. Un’altra cosa interessante è che tutti questi Paesi vantano un rapporto debito/PIL molto basso, diversi addirittura sotto il 50%, contro il 100% e passa degli USA, mentre l’Eurozona che ha i tassi a zero viaggia appena sotto. Quindi i mercati non prezzano il rischio di insostenibilità del debito, ma semplicemente quello che la moneta perda valore per l’erosione da inflazione, non temuto invece per i Paesi sviluppati…

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Il presente articolo è stato redatto da FinanciaLounge.com.