Nonostante il boicottaggio globale della Russia e la condanna internazionale delle azioni del Cremlino contro l’Ucraina, alcune multinazionali hanno respinto le richieste di uscire o ridurre la loro presenza in Russia; la scelta, dettata da vari motivi, è stata quella di proseguire l’attività come al solito.
Il conflitto tra Russia e Ucraina si trascina ormai da due mesi, da quando Mosca ha iniziato a invadere l’Ucraina il 24 febbraio. La crisi ha portato a prezzi elevati delle materie prime a livello globale — in particolare del petrolio — interruzioni della supply chain, carenze alimentari e impatti ambientali sull’aria, l’acqua e il suolo dell’Ucraina.
Nei primi giorni della guerra la Russia ha assistito a un vasto esodo di aziende globali; queste hanno voluto evitare di essere etichettate come finanziatrici di una guerra contro il popolo ucraino.
L’esodo delle aziende
La lunga lista di multinazionali che hanno reciso i legami con la Russia durante la guerra include PayPal (NASDAQ:PYPL), Ford Motor (NYSE:F), Volkswagen (FRA:VOW), Toyota Motor (NYSE:TM), Boeing (NYSE:BA), Airbus, Diageo (NYSE:DEO), Apple (NASDAQ:AAPL), Samsung Electronics (KRX:005930), Walt Disney (NYSE:DIS) e Netflix (NASDAQ:NFLX), così come i colossi petroliferi BP (NYSE:BP), ExxonMobil (NYSE:XOM) e Shell (NYSE:SHEL).
Shell ha recentemente iniziato a ritirare il personale dalle sue joint venture con l’azienda russa Gazprom, oltre un mese dopo che la società ha dichiarato che si ritirerà dal commercio di petrolio russo.
Ad oggi più di 750 aziende hanno già tagliato i loro legami con la Russia, secondo un calcolo della Yale School of Management.
Le società che sfidano la pressione pubblica
Sebbene dozzine di aziende abbiano già abbandonato o ridotto le loro attività in Russia, un certo numero di società sta ancora scegliendo di rimanere, sfidando le richieste di smettere di finanziare la macchina da guerra di Mosca.
Il conglomerato industriale americano privato Koch Industries è tra queste. A metà marzo il presidente e direttore operativo di Koch, Dave Robertson, ha dichiarato che la filiale della società, Guardian Industries, “non abbandonerà i nostri dipendenti lì né consegnerà questi impianti di produzione al governo russo in modo che possa utilizzarli e trarne vantaggio”.
Oltre a Koch, ci sono circa 330 altre multinazionali ancora operative in Russia; si oppongono alle richieste di abbandonare o ridurre le attività o che stanno posticipando futuri investimenti pianificati pur continuando attività sostanziali nel Paese, secondo la valutazione dell’elenco della Yale School of Management fatta dall’organizzazione senza scopo di lucro Don’t Fund War.
Le aziende tech mantengono la rotta
L’elenco include il colosso cinese della tecnologia e dei giochi Tencent (HKG:0700) e la società di e-commerce cinese Alibaba Group (NYSE:BABA). Tencent ha evitato di schierarsi nella guerra, ma il mese scorso ha fatto appello agli utenti affinché siano obiettivi quando discutono argomenti delicati come il conflitto in Ucraina; Alibaba, che ha costruito una presenza in Russia negli ultimi anni, ha taciuto in merito alla sua posizione nella guerra.
Didi Global (NYSE:DIDI), che ha subito un intenso controllo normativo in Cina, ha rapidamente annullato la sua precedente decisione di ritirarsi dalla Russia; l’affermazione è che continuerà a soddisfare le esigenze di conducenti e passeggeri in quel mercato.
I produttori di computer Lenovo (HKG:0992) e Asus (TPE:2357) hanno scelto di rimanere in Russia per vendere prodotti informatici anche dopo che l’azienda rivale Acer (TPE:2353) all’inizio di questo mese ha deciso di unirsi al boicottaggio globale.
Anche Xiaomi (HKG:1810), il secondo marchio di smartphone più venduto in Russia dopo Samsung Electronics (KRX:005930), ha evitato di esprimersi sui suoi piani in Russia; il marchio è entrato nel mercato russo nel 2017.
Oltre alle società tecnologiche, aziende globali come Nestlé (SWX:NESN), Procter & Gamble (NYSE:PG), Pfizer (NYSE:PFE) e Merck (NYSE:MRK) stanno prendendo tempo sulla situazione in Russia; sospesa l’iscrizione dei pazienti agli studi clinici in corso, ridimensionate le operazioni e bloccati nuovi investimenti, ferme anche le importazioni e le esportazioni non essenziali.
Alcuni esperti affermano che sta diventando sempre più difficile per dozzine di aziende che operano in Russia andarsene, secondo un articolo di marzo del Washington Post.
“Questo potrebbe essere uno dei momenti della storia in cui il disinvestimento proattivo è l’opzione migliore… Se non puoi trasferire denaro dentro e fuori dalla Russia in una valuta convertibile, che senso ha esserci?”, avrebbe dichiarato James O’Rourke, professore di management presso il Mendoza College of Business dell’Università di Notre Dame, secondo quanto riportato dal Washington Post.
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